Giorgio da Castelfranco detto Giorgione nacque a Castelfranco Veneto, nel Trevigiano, tra il 1477 ed il 1478.
Da giovane si trasferì a Venezia dove con ogni probabilità entrò in contatto con la bottega del pittore Giovanni Bellini, presumibilmente suo primo maestro dal quale apprese la pittura di impronta fortemente cromatica e l’attenzione per il dato naturale, in particolare per il paesaggio.
Paesaggio che ritroviamo sullo sfondo di una delle prime opere note di Giorgione e che costituisce l’unica pala d’altare dipinta dall’artista, a noi nota: la pala della Madonna in trono col Bambino e i santi Liberale e Francesco, tuttora posta sull’altare della chiesa di San Liberale a Castelfranco Veneto.
Giorgione aprì presto una sua bottega ed ebbe tra i suoi allievi anche i celebri pittori Tiziano e Sebastiano del Piombo. Nella bottega di Giorgione si realizzavano dipinti anche con la collaborazione di più artisti: nel 1508 l’artista si valse dell’aiuto di Tiziano per affrescare l’esterno del Fondaco dei Tedeschi, in riva al Canal Grande, ma di questi dipinti restano oggi solo pochi frammenti.
L’oscurità e la complessità iconografica dei dipinti di Giorgione lascia supporre che l’artista lavorasse prevalentemente per un limitato ambito di committenti: patrizi dalla cultura estremamente raffinata che, in alcuni casi, partecipavano attivamente all’elaborazione iconografica dei quadri commissionati, proponendo iconografie inconsuete ed ai nostri occhi difficilmente spiegabili, ma che dovevano essere d’immediata comprensione in quei circoli d’intellettuali.
Il numero delle sue opere è davvero esiguo, ma con pochi dipinti riuscì ad orientare la cultura figurativa veneta verso una maggiore attenzione al dato atmosferico, e soprattutto elaborò quella pittura detta comunemente tonale, dalla compenetrazione luminosa di colori, stesi senza preventivo disegno.
Questa tecnica fu così descritta da Giorgio Vasari: “…usando nondimeno di cacciarsi avanti le cose vive e naturali, e di contraffarle quanto sapeva il meglio con i colori, e macchiarle con tinte crude e dolci, secondo che il vivo mostrava, senza far disegno, tenendo per fermo che il dipingere solo con i colori stessi…”
Tale procedimento conferiva un’estrema naturalezza soprattutto agli incarnati, tanto che ancora Vasari notava come Giorgione sembrava essere nato “…per mettere lo spirito nelle figure, e per contraffare la freschezza della carne viva…”.
I generi più richiesti a Giorgione furono i ritratti ed i temi religiosi inseriti entro vasti sfondi naturali, ma vi erano anche soggetti profani, composizioni moraleggianti, allegorie delle tre età dell’uomo, scene di concerti, mezze figure femminili, ricercati temi mitologici o letterari.
Non solo alla pittura, ma nella breve vita di Giorgione, le fonti ci ricordano che l’artista era dedito anche alla musica ed agli amori femminili che, a detta dei Vasari, gli sarebbero stati fatali: la sua giovane amante l’avrebbe contagiato con il morbo della peste, facendolo morire nel 1510, all’età di soli trentadue, trentatré anni, all’incirca.
Alla sua morte, alcune opere rimaste incompiute furono portate a termine dai suoi due principali allievi: Tiziano e Sebastiano del Piombo.
Opere di Giorgione
Fregio delle arti liberali e meccaniche, 1496-1500 circa, affresco, cm 77×1588, Museo casa Giorgione, Castelfranco Veneto, (attribuzione incerta)
Sacra conversazione, 1496-1500 circa, olio su tavola, cm 51×81, Gallerie dell’Accademia, Venezia, (attribuzione incerta),
Madonna col Bambino in un paesaggio, 1498-1500 circa, olio su tela, cm 44×36,5, Museo dell’Ermitage, San Pietroburgo, (attribuzione incerta),
Sacra Famiglia Benson, 1500 circa, olio su tavola, 37,3×45,5 cm, National Gallery, Washington, (attribuzione pressoché certa),
Adorazione dei pastori, 1500 circa, olio su tavola, 91×115 cm, Kunsthistorisches Museum, Vienna, (attribuzione incerta),
Ritratto di giovane, 1500 circa, olio su tela, cm 73×54, Szépmûvészeti Múzeum, Budapest, (attribuzione incerta, forse copia da Giorgione),
Ragazzo con la freccia, 1500 circa, olio su tavola di pioppo, cm 48×42, Kunsthistorisches Museum, Vienna, (attribuzione incerta)
Tre età dell’uomo, olio su tela, cm 62×78, 1500-1502, Galleria Palatina, Firenze, (attribuzione pressoché certa),
Ritratto di arciere, 1500-1502 circa, olio su tela, cm 53,5×41,5, National Gallery of Scotland, Edimburgo, (attribuzione incerta)
Adorazione dei pastori Allendale, 1500-1505 circa, olio su tavola, cm 91×111, National Gallery, Washington, (attribuzione pressoché certa),
Pala di Castelfranco, 1502 circa, tempera su tavola, cm 200 × 152, chiesa di San Liberale (duomo), Castelfranco Veneto, (attribuzione certa),
Doppio ritratto, 1502 circa, olio su tela, cm 80×67,5, Museo Nazionale di Palazzo Venezia, Roma, (attribuzione incerta)
Ritratto di Francesco Maria Della Rovere, 1502 circa, olio su tavola, cm 73×64 Kunsthistorisches Museum, Vienna, (attribuzione incerta),
Prova di Mosè, 1502-1505 circa, olio su tavola, cm 89×72, Galleria degli Uffizi, Firenze, (attribuzione pressoché certa),
Giudizio di Salomone, 1502-1505 circa, olio su tavola, cm 89×72, Galleria degli Uffizi, Firenze, (attribuzione pressoché certa),
Ritratto di guerriero con scudiero, 1502-1510 circa, olio su tela, cm 90×73, Galleria degli Uffizi, Firenze, (attribuzione incerta),
Ritratto Giustiniani, 1503-1504 circa, olio su tela, cm 58×46, Gemäldegalerie, Berlino, (attribuzione pressoché certa),
Giuditta con la testa di Oloferne, 1504 circa, olio su tavola, cm 144×66,5, Museo dell’Ermitage, San Pietroburgo, (attribuzione certa),
Tre filosofi, 1504-1505 circa, olio su tela, cm 123,5×144,5, Kunsthistorisches Museum, Vienna, (attribuzione certa, con aiuti),
Madonna leggente, 1505 circa, olio su tela, cm 76×60, Ashmolean Museum, Oxford, (attribuzione pressoché certa),
Adorazione dei Magi, 1505 circa, olio su tavola, cm 29×81, National Gallery, Londra, (attribuzione incerta),
Omaggio a un poeta, 1505 circa, olio su tavola, cm 59,7×48,9, National Gallery, Londra, (attribuzione incerta),
Giovanni Borgherini col maestro-astrologo, 1505 circa, olio su tela, cm 47×60,7, National Gallery, Washington, (attribuzione incerta),
Tempesta, 1505-1508 circa, olio su tela, cm 82×73, Gallerie dell’Accademia, Venezia, (attribuzione certa),
Tramonto, 1505-1508 circa, olio su tela, cm 73,3×91,5, National Gallery, Londra, (attribuzione incerta, con ridipinture),
Ritratto d’uomo in armi, 1505-1510 circa, olio su tela, cm 72×56,5, Kunsthistorisches Museum, Vienna, (attribuzione incerta),
Laura, 1506, olio su tela, cm 41×33,6, Kunsthistorisches Museum, Vienna (attribuzione certa, firmata)
Ritratto di vecchia, 1506 circa, olio su tela, 68 × 59 cm, Venezia, Gallerie dell’Accademia (attribuzione certa),
Venere dormiente, 1507-1510 circa, olio su tela, cm 108×175, Gemäldegalerie, Dresda, (attribuzione certa, con ridipinture di Tiziano nel 1511-1512),
Nuda, 1508 circa, affresco staccato dal Fondaco dei Tedeschi, cm 250×140, Gallerie dell’Accademia, Venezia, (attribuzione certa),
Sansone deriso (Concerto), 1508 circa, olio su tela, cm 86×70, collezione Mattioli, Milano, (attribuzione incerta),
Cristo portacroce, 1508-1509 circa, olio su tela, cm 71×91, Scuola Grande di San Rocco, Venezia, (attribuzione incerta),
Cantore appassionato, 1508-1510 circa, olio su tela, cm 102×78, Galleria Borghese, Roma, (attribuzione incerta),
Suonatore di flauto, 1508-1510 circa, olio su tela, 102 × 78 cm, Galleria Borghese, Roma, (attribuzione incerta),
Ritratto d’uomo Terris, 1508-1510 circa, San Diego Museum of Art, San Diego, (attribuzione pressoché certa)
Garzone con flauto, 1508-1510 circa, olio su tavola, cm 61×51, Hampton Court, Londra, collezione reale inglese (attribuzione incerta),
Autoritratto come David, 1509-1510 circa, olio su tavola, cm 52×43, Herzog Anton Ulrich Museum, Braunschweig, (attribuzione incerta),
Autoritratto, 1510 circa, olio su carta riportata su tavola, cm 31×28, Museo di belle arti, Budapest, (attribuzione incerta),
Ritratto di antiquario, 1509-1510 circa, olio su tela, cm 75×66, collezione Lansdowne, Londra, (attribuzione incerta),
Trio di Detroit, 1509-1510 circa, olio su tela, cm 84×69, Institute of Arts, Detroit, (attribuzione incerta, con aiuti),
Cristo morto sorretto da un angelo, 1509-1510 circa, olio su tela, cm 76×63 cm, collezione privata, New York, (attribuzione incerta),
Concerto campestre, 1510 circa, olio su tela, cm 110×138, Museo del Louvre, Parigi, (attribuzione incerta, contesa con Tiziano),
Gentiluomo con un libro, 1510 circa, olio su tela, cm 76,2×63,5, National Gallery of Art, Washington, (attribuzione incerta, contesa con Tiziano),
Apollo e Dafne, 1510 circa, olio su tavola, cm 64×130, Pinacoteca Manfrediana, Venezia, (attribuzione incerta).
Opere di Giorgione
Madonna in trono con il Bambino tra i Santi Liberale e Francesco (Pala di Castelfranco)
Datazione: 1504-1505,
misure: cm 200×152,
tecnica: tempera su tavola,
collocazione: chiesa di San Liberale (duomo), Castelfranco Veneto.
Tra le prime opere di Giorgione, questo dipinto è anche l’unica pala d’altare nota dell’artista che la realizzò per il duomo del suo paese natale, dove è tuttora collocata.
Qui il soggetto riprende la tradizione rinascimentale delle Sacre Conversazioni ovvero raffigurazioni religiose dove al centro della composizione è la figura della Madonna col Bambino sul trono, mentre ai lati sono raffigurati altri santi.
Se osserviamo la pala di Castelfranco Veneto e la confrontiamo con la Pala di San Zaccaria, opera di Giovanni Bellini, conservata a Venezia, nella chiesa di San Zaccaria, notiamo che il dipinto di Giovanni Bellini fu senz’altro un modello di riferimento per la pala di Giorgione che realizzò una Sacra Conversazione particolarmente innovativa.
Non è più l’architettura a fare da sfondo, ma il paesaggio raffigurato con una libera e morbida stesura delle tinte date a macchia: il colore assume qui un valore atmosferico in quanto il lieve variare dei toni che sfuggono ad ogni precisazione disegnativa e chiaroscurale evocano con immediatezza la luminosità e le vibrazioni dello spazio naturale.
Il valore atmosferico è un elemento tipico dello stile giorgionesco che ritroviamo con maggior consapevolezza tecnica ed espressiva nella Tempesta, dipinto del 1506-1508.
La tempesta
Datazione: 1505 circa,
misure: cm 82×73,
tecnica: olio su tela,
collocazione: Gallerie dell’Accademia, Venezia.
Nel 1530 il patrizio veneziano Marcantonio Michiel, collezionista e scrittore d’arte, descriveva così questa piccola tela vista a Venezia nel “camerino di anticaglie” di Gabriele Vendramin, committente ed amico di Giorgione da Castelfranco: “El paesetto in tela cum la tempesta, cum la cingana et soldato, fo de man de Zorzi da Castelfranco”.
L’opera è ricordata nel 1855 dallo storico dell’arte Burckhardt che gli diede il titolo Famiglia di Giorgione, titolo che non durò a lungo in quanto è prevalso poi il titolo Tempesta con il quale questo dipinto è tuttora conosciuto.
Al di là del titolo, quest’opera mostra tuttora un soggetto di difficile interpretazione: la scena si svolge nel preciso momento meteorologico dello scatenarsi di una tempesta, preannunciata dal fulmine che squarcia all’improvviso le nubi gonfie di pioggia: paesaggio ed esseri umani sembrano vivere un attimo sospeso, quasi fuori dal tempo in coincidenza con il drammatico manifestarsi delle forze naturali.
Secondo molti critici moderni, il dipinto non avrebbe in realtà un tema preciso ovvero sarebbe semplicemente un “antisoggetto” cioè semplicemente una pittura di paesaggio.
Una radiografia effettuata nel 1939 ha rivelato sotto la figura maschile l’immagine di una bagnante ed il passaggio da questa figura a quella del soldato sarebbe un mutamento iconografico talmente consistente da giustificare la tesi che quest’opera sia una pura invenzione fantastica.
Questa tesi non ha trovato concordi tutti gli studiosi, ma diverse sono state le ipotesi formulate, fornendo varie interpretazioni del soggetto di quest’opera: un passo della Tebaide di Stazio (Wickhoff), Deucalione e Pirra, progenitori dell’umanità, scampati al Diluvio Universale e personaggi delle Metamorfosi di Ovidio (Rudolf Schrey), Adamo che contempla Eva che allatta il piccolo Caino, ipotesi quest’ultima formulata nel 1978 da Salvatore Settis e che troverebbe un modello di riferimento nell’opera di Giovanni Antonio Amadeo, Dio ammonisce Adamo ed Eva, rilievo della facciata della Cappella Colleoni, 1472-1473, Bergamo.
Lo storico dell’arte Maurizio Calvesi ha proposto in uno studio del 1970, un’interpretazione alchemica dell’opera giustificata, oltre che da rispondenze iconografiche, da un preciso riferimento ai Dialoghi d’amore del filosofo portoghese Leone Ebreo (1463 circa-morto dopo il 1523) in cui sono espresse una visione del mondo come “armonia” retta dall’amore divino e la neoplatonica rispondenza tra uomo e universo, tra microcosmo e macrocosmo.
Il dipinto avrebbe dunque per soggetto il matrimonio del cielo e della terra. Secondo Calvesi “la donna sarebbe così la Terra, il bambino “ciò che ne è generato e nutrito”; l’uomo “una personificazione del cielo e in particolare Mercurio”; la città sullo sfondo indicherebbe l’Egitto; le rovine “l’antica sapienza mercuriale”; le colonne e il fulmine, rispettivamente la “salita e ridiscesa di umori liquidi, aerei e del fuoco”.
Più in generale la fusione degli elementi naturali alluderebbe allo stesso fare pittorico, al mescolarsi cioè dei colori sulla tela, simile al ribollire dei metalli negli alambicchi degli alchimisti, i cultori dell’“antica sapienza mercuriale”.
Un’ultima ipotesi interpretativa, tra le più suggestive, è la scelta di un soggetto nascosto, forse preciso, ma intenzionalmente velato, criptato, quasi si trattasse di un messaggio per iniziati oppure soltanto di uno stimolo per dotte disquisizioni.
Al di là del soggetto non meglio identificato, quest’enigmatico dipinto risulta documentato nel ‘500 e nel ‘600 presso i Vendramin, passò poi nella collezione Manfrin, da cui il Bode la scelse nel 1875 per il Museo di Berlino. Il governo italiano lo dichiarò tuttavia inesportabile e dopo il passaggio nella collezione Giovannelli, fu acquistato nel 1932 dalle Gallerie dell’Accademia.
Secondo quanto narra Vasari, Giorgione avrebbe dato inizio ad una sostanziale riforma pittorica, dipingendo “solo con i colori…senza far disegno”. Nel dipinto si vede infatti come Giorgione, ormai libero da ogni schema grafico, costruisca le immagini per velature sovrapposte di colore, in una sintesi cromatico-spaziale ricca di conseguenze per la pittura dei secoli a venire.
È la stessa tecnica usata da Caravaggio, che a seguito della propria formazione (avvenuta nel Nord Italia) arrivò a rifiutare deliberatamente il disegno come elemento di eccessiva astrazione e intellettualizzazione della verità naturale, per fare uso solo del colore e della luce.
La vecchia
Datazione: 1506-1508,
misure: cm 68×59,
tecnica: olio su tela,
collocazione: Gallerie dell’Accademia, Venezia.
Curva sotto il peso degli anni, una signora anziana emerge dall’ombra dello sfondo al di là del parapetto, volgendo lo sguardo stanco verso l’osservatore che può quasi udire il debole ansimare del suo respiro, il residuo di vita che ancora anima il suo corpo decrepito.
Opera non citata da Marcantonio Michiel che menzionò invece la Tempesta, questo dipinto doveva far parte della collezione di Gabriele Vendramin, che aveva raccolto in un “camerino delle anticaglie” nel palazzo di Santa Fosca a Venezia pregevolissimi oggetti d’arte: è infatti da riconoscere nel “retrato della Madre del Zorzon de man de Zorzon con suo fornimento depento con l’arme de chà Vendramin” citato nell’inventario della raccolta steso nel 1569 e poi in quello del 1601.
Da quest’ultimo si apprende che essa aveva un “coperto”, cioè faceva da pendant ad un “ritratto d’uomo vestito di nero”, oggi perduto.
Il dipinto, come anche La tempesta, passò quasi sicuramente nella collezione di Girolamo Manfrin alla fine del Settecento e nel 1856 fu infine acquistato dall’imperatore Francesco Giuseppe per le Gallerie dell’Accademia.
Opera, originariamente eseguita su tela, fu trasferita nel 1881 su un supporto di canapa: questo spiega in gran parte l’impoverimento della superficie pittorica ed in particolare il lungo taglio che attraversa la fronte della donna, provocato da un incauto strappo della tela originale.
Dalle analisi eseguite nel 2001, è emerso inoltre che quest’opera ha avuto un’elaborazione complessa: la figura della vecchia era stata dipinta fino al bordo inferiore della tela, e solo in un secondo momento il pittore eseguì il parapetto. Così come successivamente fu dipinto il cartiglio con la scritta “COL TEMPO”.
Il dipinto è sempre stato ritenuto un ritratto perlomeno fino al 1887, anno in cui compare nel catalogo del museo con la seguente indicazione “ritratto della madre di Tiziano della maniera di Giorgione”: tuttavia non è un ritratto, ma è evidentemente un’allegoria, una personificazione degli effetti che si producono nella bellezza femminile “COL TEMPO”, come riporta la scritta nel cartiglio che l’anziana donna porta nella mano destra.
Cartiglio e parapetto furono eseguiti in un secondo momento, come hanno rivelato le analisi eseguite nel 2001.
Il monito sull’azione distruttiva del tempo per la donna è uno dei motivi ricorrenti nella lirica veneziana di primo Cinquecento e ciò sottolinea come anche questo dipinto appartenga al raffinato ambiente umanistico della città, amante di soggetti poetici e nascosti, intelligibili a pochi iniziati.
L’opera rientra in una serie di ritratti con scritte moraleggianti di cui uno degli esempi più famosi è il Ritratto di Francesco delle Opere di Perugino, nel quale l’effigiato impugna un cartiglio con la scritta “Timete Deum”.
L’impostazione complessiva del dipinto, con la figura che emerge con grande evidenza dallo sfondo in ombra, avendo davanti un parapetto marmoreo che sembra quasi bloccarla, ricorda da vicino la ritrattistica leonardesca.
Anche la visione di tre quarti verso sinistra contro il fondale nero, con la luce che delle mani e del viso per cogliere in profondità la psicologia del personaggio, deriva da celebri ritratti leonardeschi, quali ad esempio La belle ferroniere.
È stata anche avanzata l’ipotesi che Giorgione si sia ispirato in particolare ad un minuscolo schizzo raffigurante il profilo di un’anziana sdentata conservato nella biblioteca Ambrosiana di Milano, databile verso il 1505, in cui si palesa il ben noto interesse di Leonardo per le fisionomie grottesche.
La nuda
Datazione: 1507-1508,
misure: cm 250×140,
tecnica: affresco staccato, proveniente dal Fondaco dei Tedeschi,
collocazione: Gallerie dell’Accademia, Venezia.
Nel 1507-1508 Giorgione fu impegnato nella decorazione ad affresco del complesso edilizio del Fondaco dei tedeschi: il fondaco era la sede dell’attività commerciale esercitata in un Paese straniero da una comunità di mercanti ed il Fondaco dei tedeschi a Venezia ebbe con l’intervento di Giorgione e la collaborazione anche di Tiziano, un vasto complesso decorativo, purtroppo andato quasi interamente distrutto.
Ne restano soltanto poche tracce ed alcune incisioni settecentesche che ci consentono di avere perlomeno una vaga idea dell’opera compiuta: tra i fregi orizzontali e le finestre del palazzo erano dipinte figure umane di misura monumentale, collocate entro vani architettonici dipinti d’impronta classica.
Una di queste figure, tuttora esistente sia pure in pessimo stato di conservazione, è collocata attualmente nelle Gallerie dell’Accademia a Venezia ed è conosciuta col titolo La Nuda: dipinto che ci testimonia come anche Giorgione, probabilmente sollecitato dagli echi della cultura figurativa centro-italica, affronti il problema centrale dello stile classico ovvero il corpo nudo nella dimensione eroica proposta dal Rinascimento maturo.
La potenza statuaria della Nuda, pur impostata su una salda e ben articolata struttura, è affidata allo strumento prediletto del pittore, il colore, che acquista qui forza plastica e fiammeggiante intensità.
Tre Filosofi
Datazione: 1505,
misure: cm 123,5×144,5,
tecnica: olio su tela,
collocazione: Kunsthistorisches Museum, Vienna.
I Tre filosofi è un dipinto realizzato da Giorgione, intorno al 1505, su commissione di Taddeo Contarini, nobile veneziano che, insieme ad alcuni amici altrettanto aristocratici, si dedicava alla lettura, alla poesia ed allo studio della filosofia.
Come molti altri dipinti di Giorgione, anche questo era quindi un’opera eseguita per un raffinato committente, di piccolo formato e dal soggetto di difficile interpretazione.
Tante le ipotesi formulate: nelle fonti antiche l’opera è indicata con vari titoli, Tre filosofi in un paesaggio, Tre matematici, Tre Magi che aspettano l’apparizione della stella cometa.
Nell’Ottocento e nel Novecento i personaggi vennero visti di volta in volta, come incarnazioni dell’autorità della filosofia antica (l’anziano barbuto), dell’aristotelismo nell’interpretazione del filosofo arabo Averroè (l’uomo col turbante), della filosofia della natura (il ragazzo seduto, identificato come Copernico).
Probabilmente il significato profondo dell’opera era noto unicamente all’artista, al committente ed ai suoi sceltissimi compagni, ma è verosimile che il titolo Tre filosofi in un paesaggio, essendo il più antico documentato (1525), sia il più vicino all’originale.
Esso indica che il motivo centrale del dipinto non è dato soltanto dai tre personaggi, ma dalla loro connessione con l’ambiente che li circonda: dunque, dalla relazione profonda tra uomo e natura.
Per la prima volta il paesaggio assume nella rappresentazione pittorica la stessa importanza della figura umana ed è raffigurato con la stessa attenzione.
In questo, Giorgione risentì probabilmente della lezione di Leonardo, che sembra aver influenzato in modo determinante, assieme ad Antonello da Messina, lo stile della seconda parte della sua carriera: quella in cui, come raccontò anche Giorgio Vasari, il suo modo di dipingere si fece più fuso e morbido e la sua pittura divenne decisamente la “pittura tonale”, fondata sulla fusione di luce e colore, che diventerà la caratteristica distintiva dell’arte veneziana.
Invece di utilizzare una costruzione prospettica centrale, dalla struttura geometrica chiaramente percepibile come nella pittura rinascimentale dell’Italia centrale, Giorgione si avvicina alla cosiddetta “prospettiva aerea” di Leonardo da Vinci (si veda un dettaglio de La Vergine delle rocce), nella quale la lontananza era resa velando il paesaggio con strati successivi di foschia azzurrina.
Nei Tre filosofi l’artista mostra una campagna dai contorni sfumati, con una morbida fusione di luci e di ombre che contribuisce a suggerire la profondità spaziale e, contemporaneamente, ad unire tra loro i personaggi ed il paesaggio.
La roccia in forma di grotta, con i suoi toni cupi che contrastano con il paesaggio illuminato dal sole nascente ha un forte valore simbolico: evoca probabilmente il mito della caverna narrato da Platone, che illustrava la progressiva liberazione dell’anima la quale, dal mondo delle apparenze terrene, arrivava a contemplare quello delle verità assolute.
Vicino alla roccia, il fico allude forse al legno della croce, poiché nella più antica tradizione cristiana era questo l’albero del Bene e del Male dell’Eden, dal quale sarebbe poi stato ricavato il patibolo di Cristo, ma il fico può riferirsi anche al Giudizio universale che avverrà alla fine dei tempi, come nella parabola del fico riportata nei Vangeli di Matteo, Marco e Luca.
La sorgente, a sua volta, potrebbe simboleggiare la Grazia rinnovata nel battesimo. Nell’insieme, simbologie e riferimenti alla cultura antica sarebbero dunque uniti, in quest’opera, ad altri di radice cristiana.
Sul bordo ricamato dell’abito dell’uomo con turbante, proprio sopra il piede destro, si intravede la scritta ALCH: è forse un rimando all’alchimia, la scienza occulta antenata della chimica che indagava l’oscuro significato della materia, la cui pratica era diffusa, secondo alcuni storici, nella cerchia di Taddeo Contarini.
Alcuni hanno ravvisato nella pergamena che il vecchio barbuto tiene in mano, la rappresentazione di un’eclissi di sole, forse simbolo della congiunzione mistica dell’anima (la Luna) con Dio (il Sole) che lascia nell’oscurità il corpo (la Terra). Il particolare alluderebbe all’interesse del committente per l’astronomia e l’astrologia, attorno alle quali si dibatteva nella storica Università di Padova e nei più colti ambienti veneziani.
Laura
Datazione: 1506,
misure: cm 41×33,5,
tecnica: olio su tela applicata su tavola,
collocazione: Kunsthistorisches Museum, Vienna.
Opera certa di Giorgione in quanto datata e firmata sul retro, è incerta invece l’identificazione del personaggio raffigurato: una fanciulla a mezzo busto, avvolta in una cappa rossa foderata di pelliccia che ella stessa apre sul davanti lasciando intravedere il seno. Ha un velo arrotolato che le attraversa il busto e fronde d’alloro le fanno da sfondo.
Nel 1636, quando si trovava nella collezione di Bartolomeo della Nave a Venezia, l’opera era registrata con il titolo di Laura del Petrarca: un nome proprio evidentemente giustificato dalla presenza della pianta (alloro/lauro) e che aveva poi avuto come conseguenza l’identificazione con la più celebre Laura della cultura italiana.
Del resto, un ritratto ideale della donna amata dal poeta trecentesco sarebbe stato plausibile nella raffinata atmosfera intellettuale veneta del primo Cinquecento, dove i più rinomati poeti s’ispiravano proprio a Petrarca.
È più probabile, però che non si tratti di un’immagine ideale, ma di un vero ritratto, forse raffigurante una poetessa (in questo caso il lauro sarebbe il simbolo d’Apollo con cui si incoronavano i poeti ed i dotti); o forse una cortigiana letterata, figura non insolita nella Venezia del Rinascimento, il che potrebbe spiegarne la nudità.
Ma è stato anche supposto che si tratti dell’immagine di una novella sposa ed il lauro sarebbe simbolo di castità, il velo sarebbe quello nuziale ed il gesto dello spostare il manto di pelliccia a scoprire il seno significherebbe un augurio di fecondità.
In quest’opera così enigmatica e di difficile interpretazione, è il colore impregnato di luce che costruisce esso stesso la figura senza bisogno di mettere in risalto il disegno di un contorno anzi quasi cancellandolo come in una morbida foschia.
Il colore è quindi un elemento portante di quest’opera, come della maggior parte dei dipinti di Giorgione: fu in questo senso che egli diede un contributo decisivo alla nascita della pittura tonale veneziana che si differenziò nettamente dalla tradizione dell’Italia centrale, nella quale il disegno era alla base della formazione degli artisti.
Come scrisse a metà del Cinquecento Giorgio Vasari, Giorgione raffigurava “le cose vive e naturali […] senza far disegno; tenendo per fermo che il dipingere solo con i colori stessi, senz’altro studio di disegnare in carta, fusse il vero e miglior modo di fare”.
Il rosso intenso della manica e la pelliccia che pare assorbire la luce fanno risaltare la pelle della fanciulla che sembra emanare la luce essa stessa. Un simile splendente incarnato ritorna in altri nudi di Giorgione ed influenzerà tutti i pittori veneziani successivi, primo tra tutti il suo allievo Tiziano, autore di sensuali figure sdraiate di Venere, tra cui la celeberrima Venere di Urbino: qui il chiarore dorato del corpo della donna è ancor più esaltato dal lenzuolo bianco, in un gioco d’accostamenti di toni diversi dello stesso colore già anticipato, nella Laura di Giorgione, nel velo trasparente che scende sul decolletè della fanciulla.
Adorazione dei Magi
Non è noto il nome del committente dell’Adorazione dei Magi, opera di Giorgione che fa parte delle collezioni londinesi dal 1884, ma è piuttosto probabile che questo dipinto fu commissionato da una persona della ristretta cerchia di giovani intellettuali aristocratici che condivisero gli interessi letterari e filosofici del pittore prematuramente scomparso durante la peste del 1510.
Le insolite dimensioni della tavola, inoltre, fanno pensare ad una sua destinazione originaria come predella di un altro dipinto, ma su questo non abbiamo alcun riscontro documentario.
Giorgione fornisce qui una prova altissima del suo tonalismo, creando una sinfonia ben orchestrata di tinte accese, accostate armonicamente in un attento equilibrio.
L’atmosfera della scena è assorta, profondamente spirituale: al di là della rappresentazione sfarzosa degli abiti pesanti e riccamente ornati, il pittore sembra penetrare nell’interiorità di ciascuno dei personaggi e registrare con grande sensibilità le loro reazioni individuali di fronte all’evento sacro.
Giuditta
Datazione: prima del 1508,
misure: cm 144×66,5,
tecnica: olio su tavola trasferito su tela,
collocazione: Museo dell’Ermitage, San Pietroburgo.
In quest’opera, Giorgione raffigurò una donna citata nell’Antico Testamento, Giuditta, ricca, bellissima e pia vedova, che liberò con uno stratagemma la città ebraica di Betulia, nella quale viveva, dall’assedio degli Assiri.
Giunta al campo nemico dichiarò di voler aiutare il generale Oloferne a sconfiggere gli Israeliti, lo fece invaghire di sé e, durante una cena nella sua tenda, gli tagliò la testa che poi riportò trionfalmente in città dentro un sacco. L’esercito assiro, perduto il proprio capo, si disperse vergognosamente.
Giorgione rappresentò l’eroina biblica bella ed umile, forte soltanto della sua fede in Dio, così come vuole il testo biblico: ella ha il volto puro e lo sguardo abbassato, ed appare quasi imbarazzata dalla grande spada che sembra tenere con diffidenza, e dalla testa recisa e livida di Oloferne sulla quale poggia appena il piede.
Quando apparteneva a Pierre Crozat, il ricco tesoriere di Luigi XV la cui collezione fu acquistata da Caterina II nel 1779, questo dipinto era ritenuto opera di Raffaello e così fu per tutto l’Ottocento: questa errata attribuzione era suggerita dalla pacatezza e dall’armonia formali e spirituali che caratterizzano il dipinto. Tuttavia, l’atmosfera silenziosa, che conferisce ad ogni elemento della composizione una forza straordinaria, è tipica delle opere di Giorgione.
Inoltre, il paesaggio in secondo piano, una campagna verdeggiante animata da un piccolo borgo, che sfuma in lontananza nell’azzurro e nella foschia, fu realizzato proprio con quella tecnica che Giorgio Vasari definì “il dipingere solo con i colori”, senza disegni preliminari, di cui il maestro veneto può dirsi l’iniziatore.
La cura minuziosa nella descrizione delle erbe in primo piano e lo sfumato applicato soprattutto alla testa di Oloferne, rivelano, invece la conoscenza delle opere di Leonardo da Vinci.
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